venerdì 15 aprile 2011

Every now and then

Mette Edvardsen indaga lo spazio. Spazio di costruzione di una performance, nel senso più allargato del termine. Se performance è atto, lavoro, compimento di un'azione, allora tutti gli elementi sono in campo: soggetto - che - compie - l'azione, tempo e spazio.
E se il soggetto è il performer con i suoi oggetti e il tempo è la durata della performance, ecco che lo spazio pone dei problemi. Con un libro in mano, lo spettatore si dispone a una fruizione personale e interattiva: può girare le pagine, chiudere il libro, iniziare a sfogliarlo dalla fine. Lo spazio dell'azione è il libro.
Poi li spazio si allarga, dilatato nella scena di un teatro in cui accadono le stesse cose che accadono nel libro. Con qualche scarto, però.
Lo spazio della peformance diventa quell'intercapedine contestuale che unisce e separa il libro dalla scena. Dove accadono le cose?
Mette Edvardsen ha un approccio di tipo scientifico: dato un problema ne esplora le derive e le possibilità. I due lavori presentati al festival indagano, con un rigore matematico, le dimensioni percettive dell'umano, in un'analisi formale che esplora la complessità dell'essere e ne propone costruzioni sceniche.
Strutturalismo? inutile porsi questa domanda. Gli -ismi sono morti, si sa, solo Spangberg osa riproporli, in modo, non a caso, tutto personale. Certo una linea linguistica, nel lavoro di Mette, si riconosce... e la mente italiana torna a capolavori della scena quali Otto, di Kinkaleri, o certe creazioni di Jerome Bel... non vi pare?
 

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