L’applicazione di stasera? Semplicemente pura. Di quella purezza che incanta, di quella banalità grave; che uccide anche l’applauso spontaneo, incapaci di scindere la brutalità dell’argomento trattato dall’audacia degli attori. Imbonitori, falsi, fasulli, ipocriti nell’inventare una lingua dai toni acri e dissonanti. Impostori nell’imbonire un pubblico che si lascia affascinare da un vestito da sposa con sacchetto e I-Pod. Traditori nel tradire il segreto della politica sociale, di cui tutti conosciamo le malate strategie, ma che nessuno ha il coraggio di indagare fino in fondo. Nessuno ha il coraggio di andare fino a Skopje e incontrare una vecchia – perché quella era una vecchia – che racconta come stanno veramente le cose, facendoti sentire una merda, facendo vacillare tutte le tue impalcature intellettuali, artistiche e filosofiche, facendoti inesorabilmente tremare le gambe a ogni piccolo passo che fai per tornartene a casa (con le orecchie abbassate). Pasolinianamente scossi nella nostra borghesia da quattro soldi: così ci sentiamo, usciti da quello spazio vuoto, ripetitivo, pregno di un’idea ancora in gestazione, ridondante come la prima divisione cellulare di un embrione, indifferenziato e incolto. Si sente la passione, l’ingenuo stupore di fronte alla mastodontica bellezza del dolore, di quella carestia di sentimento che un popolo sopporta da troppo tempo, soffocato e bruciato dal proprio essere “popolo povero”, senza soldi, senza capacità di scambio, immobilizzato in un vortice di cause - effetto apparentemente senza una fine. “Se dici che devo pensare ti rispondo che ho fame” “Se mi dici che ho fame ti dico che voglio anche pensare” “Se ti dico che ho fame tu ti fermi a pensare” “Se mi dici che hai fame sono io che mi fermo a pensare”. A cosa serve costruire un parco giochi se dopo due giorni si sono rivenduti il ferro per far mangiare i bambini, gli stessi bambini che avrebbero dovuto divertirsi con quel parco giochi? È l’antica canzone del tavolo, del legno e dell’albero. I paradossi sembrano essere sempre esistiti: a cosa serve sottolinearne un altro, l’ennesimo, non più importante e terribile di un altro. A cosa serve? Chi sei tu? “siamo degli attori che si pongono delle domande e sono desiderosi di sapere come la pensate”. “Attori? A cosa devono pensare gli attori? Gli attori eseguono, e basta.” “no”, risponde Fiorenza durante una chiacchierata informale tra appassionati di teatro. “l’attore ha sempre dentro di sé un vuoto”. Forse è uno spazio di possibilità, un luogo di accoglienza dove far decantare le visioni del suo regista e farle evaporare attraverso i suoi pori. È forse uno spazio furioso, che pone questioni sull’essere. È probabilmente uno spazio comune dove si genera l’incontro di più soggettività. È uno spazio problematico, dove avvengono scontri. Dove avvengono scontri.
Teatro San Leonardo
Bologna - Lunedì 2 giugno 2008
Teatro San Leonardo
Bologna - Lunedì 2 giugno 2008
Teatrino Clandestino
 
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